Il weekend passato è stato davvero noioso: influenzata in panciolle sul divano.
Ho cercato di intrattenermi sperimentando con la Pasta Madre e mi sono guardata qualche programma tv in streeming (perchè da qualche anno non ho la televisione).
Così ieri sera ho seguito “Islam, Italia” di Gad Lerner. Un programma che vorrebbe parlare di integrazione. Gad è libanese e ieri, forse per onorare la Giornata contro la Violenza sulle Donne, parlava del corpo femminile nel mondo mussulmano.
La mia recensione? Sarò breve: mh.
Il programma integrale (e senza pubblicità) lo trovate QUI.
E’ stata intervistata da Gad la presidente dei giovani mussulmani in Italia: Nadia Bouzekri, una sgaissima ragazza di 24 anni, studentessa fuori sede che indossa il velo. Gad insisteva nel voler sapere se la sua religione le impediva di essere una ragazza normale che va in discoteca a ballare con gli amici. Nadia gli ha risposto che lei in discoteca non ci va, non le interessa, non le piace l’ambiente, piuttosto va a cena fuori o fa delle feste in casa con le amiche. Gad le ha risposto che è anacronistica.
Anacronistica: come fai a dire ad una ragazza di 24 anni che è anacronistica solo perchè non va in discoteca il sabato sera?
Se fai vedere le coscie sei una poco di buono, se ti copri sei una sfigata.
Se hai dei flirt sei facile, se non li hai sei “ridicola, anacronistica, arcaica, espressione di una cultura lontana con retaggi del passato che limitano la libertà” come dice Gad ad una ragazza di 24 anni.
Ed io, nel divano da due giorni mi sento ridicola/sfigata/arcaica: perchè non sono uscita ad ubriacarmi e far vedere le mie tette?
E se facesse un programma “Cattolicesimo, Italia” sarebbe in grado con la stessa sfacciataggine di dare delle anacronistiche alle giovani suore col velo o, addirittura, alle suore di clausura.
La mitica Nadia risponde a Gad che forse è facile ideare che ci sia una figura mitologica del padre dittatore piuttosto che ammettere che una ragazza di 17 anni fa una scelta di vita. Lei parla di libertà di espressione di essere mussulmano e italiano. Aggiunge specificando che è un problema di identità. Pluralità di identità. I mussulmani non sono una categoria a sè, ma ci sono mussulmani italiani.
Non c’è lo stampino del giovane mussulmano, dice Nadia.
Detto questo, ecco la teoria (ndr. Fortemente consigliata a chi prepara programmi televisivi che vogliono portare a delle riflessioni sull’identità):
Le parti per il tutto: l’individuo per il gruppo.
Come creo la mia identità attraverso il confronto con gli altri?
Il mondo che ci circonda ci vomita milioni di informazioni continuamente, ne siamo schiacciati, ci scivolano via. Come possiamo confrontarci con l’altro, con il gruppo, con la società se non la comprendiamo? L’importanza di comprendere l’ambiente per decifrare noi stessi necessita quindi di un mondo semplificato, in cui le informazioni non sono grezze ma predigerite: organizzare cerebralmente le informazioni significa collocarle in immaginarie scatole ordinate ed in seguito attribuire a queste scatole un’etichetta.
L’etichetta deve essere funzionale ed utile quindi molto semplice, basica, simile ad uno stereotipo: funzionano molto bene quindi le etichette sociali legate al colore della pelle (bianco/nero), al sesso (maschio/femmina), all’età (bambino/anziano) … un congolese e un dominicano sono sempre classificati come “neri”, nonostante possano essere un africano ed un americano perché “nero” è più facile da ricordare che non la nazionalità. Il colore è immediato, l’elenco degli Stati del mondo no. Questo lavoro mentale di organizzazione è necessario per non vivere nell’anarchia totale delle informazioni: è necessario etichettare, non si tratta di semplici pregiudizi ma di sopravvivenza! Dobbiamo cognitivamente dividere per categorie organizzate gli eventi, le informazioni, gli oggetti ed anche le persone. Solo dati organizzati in maniera semplice possono poi essere richiamati alla mente ed utilizzarli. Se ogni informazione fosse per noi totalmente nuova non sapremmo come poterci comportare per rispondere con un comportamento adeguato alla novità. Dobbiamo così trovare una similitudine, una somiglianza anche a grandi linee, che ci permetta di sapere cosa fare, cosa pensare, senza perdere troppo tempo: “la prof. Rossi è un’insegnante -> le darò del Lei”.
L’etichetta è una rappresentazione mentale semplificata a cui è aggiunto un giudizio di valore dato dalle emozioni che suscita. Perché un’etichetta sia importante per la mente deve essere anche emozionante ed in questo senso attivante perché significativa. Questo significa categorizzare ed avviene per ogni informazione, anche per quelle di contesto sociale e di relazione.
Perché le categorie sociali funzionino è necessario che siano chiare nella mente di chi le pensa: ogni scatola deve essere molto omogenea al suo interno e significativamente differente dalle altre scatole perché non ci si possa confondere. Se ci fossero degli errori il sistema crollerebbe e non saremmo in grado di rispondere anche alle più semplici richieste ambientali. Le categorie di persone sono percepite come gruppi stereotipici. Ogni individuo enfatizza quindi le somiglianze intragruppo e le differenze intergruppi. Questo significa che ogni categoria è esagerata per quanto riguarda le similitudini percepite riguardo l’interno: ad esempio “le donne sono tutte uguali”. Le persone compiono questa operazione mentale senza esserne consci, si chiamano bias semplificatori. Un bias è un errore sistematico, è una distorsione, è un giudizio di pensiero sviluppato sulla base di informazioni che la persona aveva precedentemente in possesso perché immagazzinate nella mente, ma non necessariamente vere in questo specifico nuovo caso. Il cervello infatti farà apparire tutti i “neri” come simili tra di loro e molto diversi dai “bianchi”, l’essere africani o americani non fa differenza.
Questo processo di categorizzazione è molto importante perché è contemporaneo alla definizione di sé: ovvero ogni persona contemporaneamente valuta se stessa in quanto appartenente ad una categoria-gruppo piuttosto che ad un’altra. Un individuo può collocarsi contemporaneamente in più gruppi di appartenenza (femmina/maschio; italiano/straniero; educatore/educando…). Ogni persona si categorizza.
Gli individui per valutare le proprie caratteristiche psicologiche (opinioni, competenze sociali, credenze, ecc.) si confrontano con altri individui (confronto sociale), che quindi costituiscono il «modello», ovvero il termine di paragone. Per salvaguardare la stima di sé si scelgono quindi «modelli» simili. La mente è pigra: per questa ragione è più facile paragonarsi a soggetti appartenenti al proprio gruppo con abilità e caratteristiche non troppo diverse dalle proprie. Un altro bias di pensiero vuole che le persone siano naturalmente portate a preservarsi. Per questo cercano di non mettersi troppo in discussione, ma di cogliere gli aspetti positivi di se stessi piuttosto che quelli negativi. Pertanto le categorizzazioni non sono prive di giudizio di valore o prestigio, ma sono confrontate tra di loro. Esistono gruppi giudicati più prestigiosi, oppure con valori più alti, e “fatalità” ne facciamo parte. Siamo sempre dalla parte dei migliori, per una qualche ragione che il nostro cervello ci fa considerare come importante.
Dobbiamo essere tra coloro che hanno un buon valore, altrimenti la nostra stima di noi subirebbe uno smacco troppo elevato che non sapremmo gestire.
Di conseguenza, nel confronto tra i gruppi sociali, si evidenzia la differenza con i gruppi dei quali non facciamo parte al fine di sottolineare la specificità positiva del proprio gruppo, e quindi di sé. Se noi abbiamo forti valori o prestigio allora loro non li devono avere. Noi siamo quelli buoni, impegnati, integri mentre loro sono snob, egocentrici, indecisi. Tutti coloro che non appartengono al nostro gruppo allora sono categorizzati e giudicati come appartenenti a gruppi inferiori. Però, c’è sempre un però, le categorie a cui apparteniamo possono cambiare in base al contesto: lo spiego nel prossimo paragrafo.
Pertanto, riassumendo, il desiderio di comprendere e valutare se stessi avviene attraverso la fase di categorizzazione a cui si aggiunge quella di confronto sociale (giudizio di valore e prestigio dato dal confronto intergruppi).
L’esito crea la nostra identità sociale, che è una parte sostanziale della nostra autostima. L’identità sociale risponde alla domanda “chi sono io?” perché ci permette di soppesarci attraverso il confronto con il gruppo di appartenenza ed anche con i gruppi nei quali non ci sentiamo di appartenere.