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Il Rosso Ciliegia

Sessualità: dubbi inconfessabili, timori e curiosità. Il blog di Studio Zanellato, psicologia e sessuologia a Vicenza.

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I 10 diritti assertivi commentati

Posted on 16 marzo 2019 by Il Rosso Ciliegia
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L’assertività è la capacità di far rispettare i propri diritti rispettando i diritti degli altri.

L’assertività è sincerità ed obiettività con noi stessi e le nostre emozioni, è ascolto attento dell’altro, è la via dello stare bene. Protegge dallo stress e rinforza dopo le cadute. Si tratta di un’abilità sociale, ma anche di un modo di vedere il mondo: un mondo possibilmente buono a cui possiamo dare fiducia. Contiene il germe della speranza.

L’assertività solca le acque verso gli obiettivi, non è vana: contiene valori e scopi.

L’assertività è manipolabile, segue le regole della casa, in ogni luogo è differente perchè le persone che la abitano sono differenti, è infatti accogliente e rispettosa. L’assertività è paziente, non si vanta, non si gonfia.

L’assertività è uno Stile. L’assertività non si fa, assertivi si è. È il modo di fare le cose che anche altri fanno, ovvero vivere la quotidianità.

L’assertività è la conseguenza di una scelta. L’assertività è la scelta di coerenza, non si fa influenzare. È coraggiosa, mai impavida: conosce la paura e la affronta. Sa come proteggersi dalle critiche.

Vivere coerentemente con le scelte fatte diffondendo accoglienza e gioia.

Per esercitarla potremmo cominciare dai 10 diritti assertivi, da stampare e appendere al frigo (scaricabili qui). Rileggerli sarà un esercizio quotidiano semplice, ma da condividere con le persone con cui condividiamo la casa.

Li ho commentati negli scorsi mesi sulla pagine Facebook, ve li ripropongo ordinati.

Voi soli avete il diritto di giudicare il vostro comportamento, i vostri pensieri e le vostre emozioni, e di assumervene la responsabilità accettandone le conseguenze.

–

Il nostro giudizio è autonomo, perchè siamo adulti. Daremo all’opinione altrui il giusto peso, sarà un confronto garbato e rispettoso di punti di vista che non vogliono affossare le opinioni ma trovare una conclusione in cui tutti vincono, non ci sono perdenti.
Crediamo nell’ottica del desiderio, non in quella del bisogno: desideriamo che gli altri ci sostengano, ma non ne abbiamo un bisogno identitario.

Assegnare agli altri la responsabilità delle nostre scelte è una nostra prassi abituale, soprattutto quando falliamo: impariamo ad assumercene la responsabilità.

Voi avete il diritto di non giustificare il vostro comportamento adducendo ragioni, scuse o spiegazioni.

–

Si chiede scusa quando si sbaglia, se non sussiste colpa o danno non è necessario.
Chi ci chiede giustificazioni non è interessato alla verità, è interessato a mantenere una posizione di potere su di noi.

Qual è il giusto limite tra il rispetto di me e il rispetto degli altri? La delicatezza.

 

Voi avete il diritto di decidere SE occuparvi dei problemi degli altri, di decidere di non assumervi la responsabilità di risolvere i problemi altrui.

–

Ma se decidete di farlo, non potete dire che siete incastrati: siete voi che vi siete messi in quella posizione. Assumetevi la responsabilità, e fatelo bene. Altrimenti siate chiari nel rinunciare in partenza all’incarico. Pensateci.
Il vostro sì sia sì.

Voi avete il diritto di cambiare parere o opinione, e di cambiare il vostro modo di pensare.

–

Possiamo non essere coerenti con quello che gli altri si aspettano da noi, possiamo scegliere altro. Possiamo cambiare!
Possiamo ammettere che non ci eravamo sbagliati, semplicemente abbiamo cambiato idea.

Voi avete il diritto di sbagliare, assumendovi la responsabilità delle eventuali conseguenze negative.

–

Gli errori sono non intenzionali: possiamo dire di aver sbagliato solo a posteriori. Se avessimo avuto la consapevolezza prima, certamente non avremmo sbagliato!
Dobbiamo accettare la possibilità di sbagliare.
Solo così possiamo apprendere: non è sciocco o infelice chi cerca di rimediare, ma chi ripete gli stessi errori.

Voi avete il diritto di essere illogici nelle vostre scelte.

–

La logica si basa sull’alternativa tra vero e falso, e tutto sembra rientrare in questo spirito binario: giusto, sbagliato, buono, cattivo,…
L’umano -fortunatamente- è più complesso, più personale, più soggettivo. Difficile da ridurre.
Bisogna essere ragionevoli, non razionali. Non logici, ma di senso.

Esprit de finess, alla Pascal: la capacità di intuire tipica degli uomini.

Dobbiamo esserne consapevoli e con onestà intellettuale non spacciare per logico quello che non lo è. Perchè anche ciò che è illogico ha una sua motivazione d’esistere.

Voi avete il diritto di rifiutare una richiesta che porta via troppo tempo o risorse dai vostri impegni.

–

Come fate a fare bene le cose che avete scelto se continuate ad essere distratti da ciò che non avete scelto?
Un po’ più di minimalismo e dedizione: saper scegliere cosa fa parte di noi e cosa può procedere al di fuori del nostro controllo.
Una definizione del nostro campo d’azione nel quale siamo speciali e competenti, non tangenti e aspecifici.
Vuoi sentirti speciale? Scegli.

Voi avete il diritto di dire: “Non so”, quando vi si chiede una competenza che non avete.

–

Crediamo di essere potenzialmente onnipotenti.
Crediamo di poter bastare a noi stessi.

Per tutte le volte che hai googlato per non ammettere di non sapere e chiudere un dialogo. Hai litigato su temi che non conoscevi per questione di principio. Quando forse avresti potuto chiedere alla persona con te ed ascoltare, e far nascere un confronto significativo sui temi importanti. Invece di essere troppo preoccupato di avere una tua opinione in merito, di voler fare bella figura, di non perdere la fiducia di chi stimi, di farti vedere manchevole, parziale, umano. Eri troppo preoccupato di te per imparare.

Per tutte le volte che ti sei sentito sbagliato, inadeguato quando bastava dire “non so” e saresti stato onesto. Per quelle volte che hai spudoratamente mentito, hai fatto la faccia da poker. Preferici mentire che tacere.

Questo diritto riguarda anche la possibilità di affrontare nuove situazioni senza pretendere di conoscere già ogni loro aspetto. Perdiamo tempo in troppe prove mentali prima dell’azione, rimuginiamo cercando la sicurezza. Ma se già sapessimo tutto, non sarebbe più una ricerca del nuovo. Sarebbe solo un déjà-vu.

Voi avete il diritto di dire: “Non capisco”, a chi non dice chiaramente che cosa si aspetta da voi.

–

Non esiste la lettura del pensiero.
Non possiamo aspettarci che gli altri ad un certo punto facciano la cosa che vogliamo perchè lo hanno intuito.

L’amore che intuisce non esiste:
“se mi vuole davvero bene capirà cosa mi fa piacere e cosa no”;
“se non capisce da solo significa che è un ignorante e un irresponsabile”.

Silenzi, frasi che alludono, sguardi giudicanti, situazioni ambigue, sospiri, mal di pancia. Irritazione, colpa.

Parlami, spiegami, confrontiamo i punti di vista: non ho capito!

Voi avete il diritto di dire: “Non mi interessa”, quando gli altri vi vogliono coinvolgere nelle loro iniziative.

–

Dobbiamo perdere l’abitudine di sentirci con la coscienza sporca ogniqualvolta non proviamo nulla di suggerito. Una variante sottile della dipendenza dalle iniziative altrui è il perfezionismo: vogliamo migliorare noi stessi, non sentirci mai sufficienti, provare sempre cose nuove e raggiugere risultati ambiziosi anche se a volte non sono quelli che avremmo voluto per noi.
Anche nell’intimità cerchiamo la performance perdendo il valore della scelta personale, non uniformata agli standard mediatici.

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Pubblicato in Affettività | Contrassegnato autostima, dialogo, diritto, educazione, felicità, relazione | 1 Risposta

Sex Education fa sembrare il 2019 un anno migliore.

Posted on 17 gennaio 2019 by Il Rosso Ciliegia
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In un secolo che sta cercando di uscire dal machismo arriva Sex Education, la nuovissima serie lanciata da Netflix che sta ottenendo un meritatissimo successo planetario, 8 puntate super bingeabli.

La serie, creata dall’emergente Laurie Nunn e diretta da Ben Tylor, muove da un tema arcinoto: i ragazzi non hanno figure educative che parlino di sesso. Così in una scuola britannica nasce una clinica non autorizzata per problematiche sessuali inaspettatamente diretta da un adolescente incasinato e vergine.

 

L’ho guardata perchè dovevo. Non potevo farmi sfuggire il nuovo prodotto di punta per adolescenti. E invece mi ha conquistata. Divertente, elegante, istruttivo. Fuori dagli stereotipi.

Riesce a non essere dicotomico. Ha due anime che parlano tra loro: impegnato e leggero.
Ha una chiave sociale e politica brillante, conquista. Nessun tema è banalizzato. Serie seria. Temi complessi con soluzioni intelligenti.
Ed inoltre parla piacevolmente di piacere, non reprime, non giudica. Alleggerisce. E’ autoironica.
Non è come la serie Settimo Cielo che affronta temi complessi con soluzioni paternalistiche corroborate dall’evidenza dei fatti – se fai la cosa sbagliata il karma ti porta a soffrire.

L’atteggiamento al problema fa tutta la differenza.

Passa senza intoppi dall’humor esilarante al momento drammatico. I personaggi sono multidimensionali. Tutto compenetra opposti, trova sintesi.

SPOILER ALLERT: guardatevi la serie. La consiglio vivamente e mi aspetto che commentiate con me i passaggi irriverenti e rilevanti.
Fa ridere, è leggera, scorrevole. E’ inaspettata e credo che questo sia il suo pregio. Quindi finite le 8 puntate e tornate qui.

Sembra un classico: una british commedy per adolescenti.

Sembra un déjàvu: il ragazzetto sfigato, l’amico più sfigato, la femminista alternativa, i bulletti, il preside arcigno, la madre single che non ce la fa, la scuola lacunosa, la provincia, il ballo di fine anno.
Sembra un mix di stereotipi: la famiglia dei neri ha un sacco di figli e va in chiesa, la terapeuta sessuologa è una ninfomane, perfino l’idraulico è quello che si fa le clienti. I gay sono effeminati, i figli litigano con i genitori, le bullette sembrano Le Ragazze di Beverly Hills, blablabla.

Il riassunto della trama è più o meno questo: non succede praticamente niente.
Due amichetti del cuore crescono assieme, litigano ma si ritrovano.

 

E INVECE

Credo sia una meravigliosa commedia legata allo stile narrativo degli “e invece”. Le situazioni si capovolgono continuamente. Gli autori ti portano a credere fino in fondo che la trama si avvicinerà alle tue aspettative, e invece. Con questo stile si comprende come si può uscire dallo schema: una serie contro gli stereotipi che esce dagli streotipi.

Inghilterra, scuola superiore, anno incerto.

Non si coglie il tempo nel quale si muovono i personaggi. Anni 80 e 90, con degli elementi precedenti, un po’ preppy. Ottimo escamotage – penso io – così non dovranno trovare risposte ai temi contemporanei! Mantiene questa atmosfera vintage dai toni color terra, inquadrature ampie ed eteree, fino a quando, dal niente, estraggono dalla tasca un cellulare e… chattano!
Poi infatti compaiono i temi del cyberbullismo e del sexting.
Ciò fa ben intendere che non si tratta di temi nuovi, gli strumenti cambiano ma le dinamiche sono un classico. Gli adolescenti non sono alieni post-moderni incomprensibili, sono come siamo sempre stati.

Ecco, la serie è così. Si crea un’atmosfera parallela in cui tutto sembra possibile e poi te la sbrandellano in faccia, per poi ricostruirla con dei voli pindarici narrativi che ho adorato. Pensate all’episodio in cui Otis ed Eric si vestono da Hedwig, ovvero da -diciamo- drag queen. [nota. Da Hedwig!!! Un film che adoro! Ho la colonna sonora in auto e la uso come spinta prima di andare nelle classi a fare educazione sessuale! Ho scritto su di lei questo post.] Il mio cuore batteva perchè attendevo con angoscia il momento in cui sarebbero stati ridicolizzati e picchiati per questa ragione: non puoi andare in giro per la provincia con minigonna-jeans e parrucca bionda, dai. E invece passano i minuti e gli altri personaggi interagiscono con loro quasi con nonchalance. Surreale. Mi lascio conquistare da questo mondo parallelo, dove tutte le cose sembrano possibili. Improvvisamente vengo svegliata da un pugno allo stomaco, anzi sullo zigomo.

Il ritmo è serrato, i personaggi intensi: la causalità è multipla, complessa, le cose accadono a causa di molte ragioni. Intendo dire che negli episodi succedono così tante cose che farne un riassunto sarebbe talmente lungo che… a questo punto guardatevi la serie. Succede di tutto per fare in modo che non accada nulla. La staticità è un sistema mutevole. L’amore come motore immobile.

Personaggio preferito: il padre di Eric. All’inizio pensi sia totalmente incapace di comprendere la complessità, poi capisci che è l’unico che ha semplicemente capito, poi nonostante la sua perfezione paterna ammette di poter essere migliore. Uao. Un personaggio lineare, solido, a tutto tondo. Non ha grandi evoluzioni, ma permette allo spettatore di conoscerlo meglio. Ho letto in rete alcune descrizioni che lo dipingevano come “il padre conservatore del ragazzo gay”. Naaah, avete capito male. All’inizio ci fanno intendere che è così, in realtà è il vero alleato, la vera forza del figlio.

Attrice preferita: Tanya Reynolds, ovvero Lily. Si tratta di una studentessa che disegna fumetti erotici fantascientifici. Ha la fissa di perdere la verginità al più presto e invece scopre di avere un vaginismo, ça va sans dire. La scena in cui viene introdotta fa subito pensare ad American Pie, il flauto della banda. E invece. Durante il suo ballo in camera di Otis ho fatto una standing ovation dal divano con forti applausi e faccia convinta per la sua performance! (davvero) E’ la fatina madrina del 2019.

Scena TOP: “it’s my vagina”. La scena è tremendamente femminista, eccessiva, struggente. Ma la narrazione che l’accompagna nel corso della puntata fa percepire la sua forza, togliendo lo stucchevole. Olivia e Ruby, nemiche-amiche. Il femminismo è una cosa tra donne, il bodyshame è una cosa da donne. Non è una contraposizione banale con il maschile. Vediamo la compenetrazione tra contesto sociale e situazioni personali.
Probabilmente la soluzione razionale sarebbe stata semplicemente andare dalla polizia postale, la serie punta ad una soluzione più elegante.

 

Carellata di “e invece”:

  • Maeve scappa dalla casa di Jackson dopo aver conosciuto la sua perfetta famiglia, nessun commento sul fatto che siano due mamme.
  • Le coppie sono spesso modello ringo: Maeve e Jackson, Otis e Ola, Eric e Adam, Lily e Octoboy, Sean e Tiana, le mamme di Jackson.
  • Jean, la mamma terapeuta, non dice mai la cosa giusta, fino alla fine, senza redenzione. E’ sbagliata almeno quanto riesce ad essere tremendamente sexy. Ma mai si dubita che al lavoro possa essere brava e professionale. E’ Skully di Xfiles.
  • Aimee fa spesso sesso con i ragazzi più sexy, sembra le piaccia davvero, e invece. Scopre il piacere in sè stessa: banale ma giusto.
  • Adam ha un approccio omosessuale che sembra essere solo una sbandata. Invece cerca di sfiorare e carezzare Eric durante le ore di scienze. Potrebbe nascere qualcosa di corrisposto, e invece.
  • Maeve è una tigre brillante nata in una famiglia disastrata, incredibilmente capisce di volere Otis e invece lui si mette con Ola. Io spero vivamente che ci sia solo questa stagione e che si concluda così! Mi sarei aspettata un “vissero per sempre felici e contenti” e invece. Meglio così, meno stucchevole, più reale.
  • Jackson vince la gara di nuoto per far rimanere Maeve a scuola, e invece.
  • Il sesso è una scusa per parlare d’altro. Perchè la sessualità è così: un luogo dove tutti i temi si toccano e si intrecciano.
  • Otis dice spesso la cosa davvero giusta -come fosse una di quelle belle frasi motivazionali che incorniciano i selfie fatti in bagno-, che però si rivela essere quella sbagliata: peggiora la vita ad Adam (che si mette in ridicolo), a Sean (che tenta il suicidio), alle ragazze lesbiche (che si mollano), a Ruby (che litiga con Olivia)…; cerca di dire la cosa sbagliata a Jackson e invece è quella giusta (e si mette con Maeve).
    Lui ci prova, ma resta solo un sex coach, non un terapeuta: i suoi discorsi sono ben piazzati. Un sacco di belle parole che destano l’ammirazione del pubblico adulto: infatti sono cazzate. Otis non sa fare questo lavoro, ricalca ciò che fa la madre solo perchè vuole stare vicino a Maeve.
    I suoi pazienti capiscono quello che vogliono capire, infatti lui suggerisce soluzioni che a suo parere potrebbero essere funzionali. Fa fare ad altri lavori su loro stessi che lui non ha mai sperimentato, non è un vero empatico. Mette etichette, non fa un’analisi del caso personalizzata.
    Sarà Lily ❤ a farlo scendere dalla collina a tutta velocità perdendo le inibizioni, così lui finalmente potrà correre da Ola e farle un discorso mal fatto ma autentico e carico di emotività.

Colonna sonora WOW qui. Tra le canzoni trovate “The Origin Of Love” tratta da Hedwig, che narra la leggenda dell’origine dell’amore di Aristofane.

 

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Pubblicato in Affettività, Sessualità | Contrassegnato amore, cultura, dialogo, educazione, famiglia, felicità, internet, omosessualità, pornografia, sesso, video | 2 Risposte

SEX PILLS + la APP per appuntamenti che funziona davvero!

Posted on 8 gennaio 2018 by Il Rosso Ciliegia
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Ci sono dei consigli per il mantenimento e miglioramento della coppia che sono fuffa vera.

E poi spicca un geniaccio, un vecchiarello che ha studiato per 40 anni le coppie nel suo “love-lab”, che dispensa dei consigli utilissimi e fondati sulla ricerca: è il professore emerito John Gottman, riconosciuto come uno dei 10 più influenti terapisti dell’ultimo quarto del secolo scorso. Nella foto è con la sua co-terapeuta, la moglie Julie, sposata 30 anni fa, dopo 2 divorzi.

Vi riassumo il suo lavoro con le parole di Martin Seligman, padre della psicologia positiva, che così descrive il lavoro di Gottman nel suo best-seller “La costruzione della felicità” (libro che ho comprato usato a 2 euro 12 anni fa e ho letto in una calda estate in Toscana con i grilli di sottofondo, inconsapevole di quale tesoro della psicologia fosse):

Gottman riesce a prevedere con una buona approsimazione quali coppie divorzieranno e quali rimarranno sposate, e usa questi dati per formulare programmi di sostegno per le coppie in crisi. Osservano centinaia di coppie interagire per 12 ore al giorno in un intero fine settimana nel suo “love-lab” (una confortevole casa-laboratorio, in cui la coppia viene osservata attraverso gli specchi unidirezionali), Gottman riesce a prevedere il divorzio con un’attendibilità media di oltre il 90 per cento. I sintomi sono i seguenti:

  • forte disaccordo iniziale
  • atteggiamento critico verso il parner, più che lamentele
  • manifestazioni di disprezzo
  • suscettibilità e atteggiamenti difensivi
  • mancanza di conferme (e atteggiamenti di ostruzionismo)
  • linguaggio corporeo negativo

Sul versante positivo, Gottman riesce anche a prevedere quali matrimoni miglioreranno negli anni. Egli ha scoperto che queste coppie dedicano al proprio matrimonio almeno 5 ore la settimana. Ecco ciò che fanno, e vi consiglio di riflettere su questi suggerimenti:

  • nell’accomiatarsi, la mattina, queste coppie si informano su almeno una cosa che il partner farà durante la giornata (2 minuti per 5 giorni = 10 minuti).

  • Nel ritrovarsi, al termine di ogni giornata di lavoro, la prima conversazione di queste coppie verte su argomenti a basso tenore di stress (20 minuti per 5 giorni = 1 ora e 40 minuti).

  • Manifestazioni di affetto: toccarsi, stringersi, stare abbracciati, baciarsi, il tutto con tenerezza e indulgenza (5 minuti per 7 giorni = 35 minuti).

  • Un appuntamento settimanale. Queste coppie hanno l’abitudine di riservarsi almeno 2 ore la settimana per star soli loro due in un’atmosfera rilassata: una piccola “revisione” periodica del loro amore (2 ore a settimana).

  • Ammirazione e apprezzamento reciproci. Ogni giorno queste coppie si manifestano almeno una volta questi sentimenti (5 minuti per 7 giorni = 35 minuti).

Totale: 5 ore.

Quando chiedo alle coppie di quanto tempo assieme avrebbero bisogno per stare bene mi sparano sempre numeri altissimi: l’intero weekend? No, meno. Tutte le sere tornando presto da lavoro? No, non serve. Bastano 5 ore.
Ma siamo in grado di trovare 5 ore ogni settimana da dedicare alla nostra relazione?
Non è molto tempo, ma è un buon tempo.
Infatti la qualità dell’incontro è più importante della quantità. Dopotutto che aspettiamo? Si tratta di stare in compagnia con l’uomo o la donna migliori del mondo, quelli che abbiamo scelto. Trovatele. Niente scuse. Se non le trovate è perchè in realtà non vi interessa: impegnatevi nel trovare delle oasi di intimità, ammirazione, confronto all’interno di routine che possono sembrare fagocitanti.

 

E dopo che siamo riusciti ad organizzarci il nostro appuntamento settimanale?
… NEWS!

Per aiutarci ancor di più John Gottman (sempre sul pezzo il vecchiarello) ha anche appena prodotto una APP! Che è esattamente il contrario di una app per appuntamenti: cioè, gli appuntamenti ci sono davvero, ma sempre con la stessa persona. Non devi cercare altrove quello che non hai, ma lo devi costruire con chi ti sta al fianco.

Io e mio marito ci abbiamo giocato tutta la sera, è carina, semplice, anche se in inglese. Si chiama Gottman Card Decks e contiene domande stimolo da farsi l’un l’altra, suggerimenti di attività da fare assieme, frasi carine da dire, provala: …qui su Google Play!

Siete talmente in crisi che vorreste andare direttamente al “love-lab”? Sappiate che la casa-laboratorio si trova su un’isola, ci sono mesi d’attesa e costa 7500 dollari per un weekend…! Hanno anche inventato uno schema a casetta che riassume la teoria di Gottman, qui vi si può riflettere gratis.

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SEX PILLS – Elogio del pettegolezzo

Posted on 11 settembre 2017 by Il Rosso Ciliegia
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Il pettegolezzo ha una fama abbastanza cattiva ma forse non del tutto meritata. Ma com’è possibile, dirà qualcuno, che ci sia qualcosa di buono nello sparlare di amici e conoscenti, per di più alle loro spalle? E’ vero che certi pettegolezzi nascono dalla meschinità o dall’invidia, ma ciò non basta a screditare in generale un’attività che ha spesso una connotazione morale positiva.
Una persona maligna farà pettegolezzi maligni, una persona spiritosa farà pettegolezzi spiritosi, una persona cauta farà pettegolezzi cauti. Ci sono molti tipi di pettegolezzo e nessuno di questi è necessariamente cattivo o ostile.
Non dobbiamo confondere il pettegolezzo con la calunnia o la maldicenza. Dire che Gianni è un violento significa formulare un giudizio morale, fondato o infondato che sia, non è fare pettegolezzo. Affermare che Gianni è un truffatore, se questo non è vero, non è un pettegolezzo, ma una calunnia. La calunnia e sua sorella minore, la maldicenza, producono mere menzogne, mentre il pettegolezzo ha un certo rispetto per la verità. Esso aspira a stabilire come siano andate realmente le cose, cita quando possibili le fonti, cerca riscontri indipendenti, lascia margini di dubbio.
Il pettegolezzo si propone non di denigrare il suo oggetto ma di svelarne la vera identità morale. Esso muove dal desiderio di sapere e dal bisogno di valutare, di immaginare, anche di recitare una parte in una commedia. Di qui nasce il rapporto paradossale con la verità, che viene rispettata e nello stesso tempo tradita.
Lo spunto della storia è spesso vero, ma viene trasfigurato da un lussureggiante fiorire di interpretazioni. E’ vero, come dice Garboli, che “i pettegolezzi dicono quasi sempre la verità sulle cose che accadono, ma le cose non accadono quasi mai come i pettegolezzi le raccontano“.
[…] Il problema a cui il pettegolezzo vuol dare risposta è dunque molto concreto: poichè la rappresentazione pubblica di una persona vincola gli altri a considerarla in un dato modo, gli altri vogliono sapere se le richieste che la persona fa di essere trattata in quel modo siano giustificate. “Quando un individuo si presenta, in modo esplicito o implicito, come una persona di un certo tipo, egli fa agli altri una richiesta di tipo morale, obbligandoli a trattarlo nel modo in cui una persona di quel tipo ha diritto di essere trattata” (Goffman).

Giuseppe Mantovani, L’Elefante Invisibile

Il pettegolezzo è una narrazione drammatica che vuole fare scalpore, è un’operetta teatrale! Ci vuole del genio per saper creare un’ottimo gossip! Inoltre serve empatia, capacità di riconoscere i dettagli, conoscenza delle norme implicite, fiducia nell’ascoltatore. Dice molto di chi lo fa, più che del soggetto che è giudicato: quale valore sta sostenendo come rilevante? E’ la quintessenza dell’intelligenza sociale.

Inoltre il gossip opera una sorta di manutenzione morale del gruppo poichè narra di possibili scostamenti delle condotte delle persone rispetto alla loro immagine pubblica: più la posizione è di rilievo, più la condotta deve essere vicina alle aspettative della comunità di appartenza. Le figure religiose e politiche sono monitorate dal gruppo. Un patto di coppia, come il matrimonio, è un patto sociale proprio perchè vuole approfittarsi della forze del gruppo per il suo mantenimento nel tempo: chi sparla sostiene!

Il pettegolezzo non solo valuta la persona, ma valuta il senso di scostamento in rapporto alla morale del gruppo per portare possibili aggiornamenti. Il gossip può e deve modificare l’etica, la rende più umana, più possibilista, più vicina ai tempi che corrono.

Chi si scosta dalla norma è debole o coraggioso?

 

XoXo,
GossipGirl

Pubblicato in Affettività, SEX PILLS | Contrassegnato cultura, dialogo, relazione | 2 Risposte

5 modi per affrontare l’altro tabù della coppia: i soldi.

Posted on 7 settembre 2017 by Il Rosso Ciliegia
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Non potete immaginare quanto della sessualità sia influenzato dal portafogli. E non parlo semplicemente delle escort e dei gigolò, badate bene. Parlo delle relazioni di coppia a breve, medio o lungo termine.
I soldi, come il sesso, sono metafora di molto altro: rappresentano il potere, la forza della condivisione, la fiducia reciproca, l’impegno alla causa, la progettazione e la tensione al futuro, l’eredità del passato.

Proprio a causa della loro rilevanza, proprio perchè l’economia familiare è il luogo dove tutte le cose si toccano e stanno assieme, diventa difficile parlarne. Il denaro è il bottone rosso, da non dover premere mai per non scatenare un inferno. Così, come spesso accade per le questioni spinose, si finisce per non parlarne. E più l’argomento non viene trattato con candore più diventa soggetto alle aspettative/fantasie/sogni personali. Nella completa ignoranza dell’altra/o.

Parlare di denaro significa non dare per scontato quello che la società ci potrebbe aver trasmesso nel tempo: davvero il conto in comune è la soluzione più equa? Quanta privacy è necessaria ai membri della coppia? Come vogliamo investire i nostri risparmi? Come vogliamo affrontare i nostri debiti?

Come parlare di soldi senza rischiare un divorzio?

UNO
Innanzitutto fatelo prima di sposarvi! Fatelo subito, presto, ora! Non date per scontato che il vostro partner la pensi come voi, chiedete. Non pensate che la soluzione sia un poetico “decideremo insieme navigando a vista” perchè in quel momento sarà troppo tardi. Le persone rinviano questa questione perchè sanno che potrebbe essere potenzialmente molto complessa, ma sappiate che i nodi arrivano al pettine. Quanti risparmi o debiti avete ora? Il vostro partner lo sa?

DUE
Parlate dei valori, non dei businness canvas. Condividete uno scambio di opinioni sullo stile che la vostra coppia vuole avere, non meramente sulle percentuali di investimento. Discutete di cosa volete raggiungere e delle priorità finanziarie per il futuro assieme. Volete godervi la casa acquistando mobili stupendi? Volete viaggiare lontano o stare sul divano con Sky cinema e Netflix? Volete conservare i soldi per la vecchiaia? Volete una famiglia numerosa? Volete lavorare entrambi? Avete hobbies costosi? Preferite un mutuo o un affitto? Vorreste una casetta per le vacanze o un camper? Volete sposarvi… con quale budget?
Volete investire nel vostro lavoro come liberi professionisti pagando prestigiose e continue formazioni? (–> ok, questa sono io, ma mio marito mi sostiene! ❤ )
Ogni scelta di priorità implica una scelta di risparmio: ciò che non è nella wish list potrebbe essere sacrificato, senza tanti rimpianti. Traaaak. C’est la vie.

TRE
Non delegate le responsabilità in toto all’altro della coppia, sia del presente sia del futuro. E’ probabile che uno dei due sappia gestire meglio le bollette e l’altro la spesa alimentare, ma è necessario concordare e non dare per scontata l’assunzione di responsabilità. Mantenete entrambi monitorata la situazione generale. Rendersi co-partecipi delle scelte quotidiane è importante, ma ben più rilevante è prendere decisioni per il lontano futuro: cosa potrebbe accadere dal punto di vista finanziario se la coppia dovesse sciogliersi? Come posso assicurare una vecchiaia serena alla persona che amo?

QUATTRO
Mettete un tetto spesa al denaro che potete spendere senza informare l’altro: 50 – 100 – 500 euro al mese? Ovvero sopra ad una certa cifra pattuite che sia necessario il consenso del partner. Chiaramente non si tratta di spese di gestione quotidiana, ma informate e chiedete l’approvazione per le spese fuori dall’ordinario che superano una cifra per voi significativa. Potrebbe altrimenti essere una brutta sorpresa, una causa di litigio perchè limita la disponibilità economica e la libertà della persona che amate.

CINQUE
Fondo emergenza. Non siate sciocchi: prima o poi l’auto si romperà, vi ammalerete, perderete il lavoro, succederà qualcosa di grave ai vostri familiari. Essere ottimisti nella vita significa saper prevedere la sfiga. Vivere sul filo del rasoio nella innocente speranza che la vita ci sorrida sempre è… non ho parole per dirlo, ma ci siamo capiti. Se volete invece che sfighe le chiameremo sfide, più powerfull-life-personal-coach. Mia nonna (my-personal-life-wonderfull-coach che mi fa anche gli gnocchi) lo chiama “fare musina”.

 

Con molta sincerità, fatelo. Spesso durante gli incontri di coppia in studio devo sollevare io la discussione che spesso si è incancrenita nel tempo, facendo svaporare molte illusorie aspettative legate al “se l’altro mi ama sa cosa voglio”, cosa che purtroppo accade anche nella sessualità. Potrebbe essere complicato all’inizio, ma assicuro che poi sarà tutto in discesa. Non solo la comunicazione tra partner, ma l’intera relazione di coppia fuori e sotto le lenzuola.

(Guardate le illustrazioni del favoloso Damien Florebert Cuypers, disegnatore francese delle migliori passerelle di moda… chi meglio di lui per celebrare il rapporto tra amore-desiderio-denaro?)

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Gaslighting, ovvero l’angoscia

Posted on 11 agosto 2017 by Il Rosso Ciliegia
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Tempo d’estate, tempo di grandi classici del cinema e della tv!
Ho trovato su YouTube tutto il film Gaslight del 44 che fece vincere l’Oscar ad Ingrid Bergman. Un noir che venne tradotto in italiano col titolo Angoscia, un thriller che ha segnato la nostra cultura occidentale tanto da permettere la formazione dell’espressione comune gaslighting.

Il film narra di un efferato assassino che compie piccole manipolazioni ambientali quotidiane (ad esempio abbassare le luci a gas, da cui il titolo dell’opera) col fine di far credere alla propria moglie di essere pazza. Infatti nel momento in cui la moglie nota questi cambiamenti lui la fa dubitare di se stessa insistendo sulle cattive percezioni di lei.

 

“Lei ha paura di diventare pazza” dice il poliziotto che sta risolvendo il caso.

Ad un convegno dello scorso anno, un collega ed amico, il dottor Giovanni Piccolo, portò l’argomento gaslighting alla luce della platea.
Il Gaslighting è una forma di violenza psicologica che si compie soprattutto all’interno delle relazioni di coppia nella quale false informazioni sono presentate alla vittima con l’intento di farla dubitare della sua stessa memoria e percezione. Si esprime in diverse modalità, dalle più blande alle più gravi.
Si tratta di un’assuefazione lenta, progressiva, nella quale ogni elemento sembra insidacabilmente portare all’assunzione di colpe e responsabilità da parte della vittima.
La chiave di volta di questa tecnica di violenza è il creare un etichettamento alternativo della realtà: una percezione reale viene giustificata in modo irreale, creando disorientamento.

Ora, al di là dei blabla tecnicismi della spirale di pressione psicologica che hanno sicuramente importanza e rilevanza ma basta googliate un po’ e trovate tutto, sveliamo ineditamente la ragione per la quale un film del 44 è diventato un caposaldo della psicologia.

E’ colpa sua, al solito:

Angela Lansbury, meglio come conosciuta come la scrittrice Jessica Fletcher, la Signora in Giallo. Compì 18 anni durante le riprese di Gaslight nel quale recitava la sua prima parte importate. Ma che poi, lo notate il sinistro uccello morto sul cappello? Presagio.

Avevamo dubbi? Se c’è un assassinio è chiaro che c’è lei.

Vi sembra ancora una sveglia signora che capitava al posto giusto al momento giusto? Naaa. Intorno a lei più omicidi che neanche i messicani dei cartelli della droga. Lasciatemi dire la verità: siete stati condotti in errore, si tratta del primo caso di serie tv nella quale il gaslighting veniva praticato… sullo spettatore! Ggggeni.
Per anni abbiamo creduto stesse dalla parte del bene, risolvesse i casi più complessi… invece no!
Svegliatevi fuori!!! Siamo stati tutte vittime delle sue manipolazioni mentali!

E’ lei l’assassina!

Ed ora la news di questi giorni: ad un passo dai 92 anni Angela vorrebbe recitare in un’ultima puntata speciale de La Signora in Giallo, lo ha confidato ieri al Sunday Post. Sempre sul pezzo, la vecchietta! E non dite che non vi avevo avvertiti!
Imparate a riconoscere le sue mosse con cui ci ha ingannati per tutte le estati della nostra giovinezza: 264 episodi!

L’articolo su Il Corriere. Jessica, ti aspettiamo con impazienza! Stavolta non ci freghi!

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Innamorarsi non è amare

Posted on 22 febbraio 2017 by Il Rosso Ciliegia
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Quante volte ho parlato dell’amore e dell’attrazione. Molte volte ho raccontato della PEA e della serotonina, di come sia tutto una questione di chimica.

A volte mi è capitato di spiegarlo ai bambini, altre volte alle coppie sposate da decenni.

Forse è più difficile raccontarlo ai bambini. In una definizione su Donna, una geografia intima (di N. Angier) di “persona radicale” ho letto “un tipo fatto apposta per suscitare vespai, che poi è un altro modo per dire che pone domande talmente ovvie e fastidiose che nessuno le ha mai poste prima”. Ebbene, i bambini sono decisamente radicali. Bisogna avere le idee ben chiare in testa per poter spiegare il sesso agli angeli. Ma sono i più grandi generatori di stupore davanti alle meraviglie della vita.

Finchè scivolavo tra le braccia di Morfeo, la scorsa notte, ho pensato a questa frase, esattamente come ve la scrivo.

Sono affamato, sono alla ricerca del cibo.
Sono assonnato, ho bisogno di dormire.
Sono innamorato, tendo all’amore.

L’innamoramento infatti non è amore, come la fame non è sazietà.

E’ protendersi, ricercare. Rimanete attivati sulle sue corde.
Innamorarsi è scompiglio, genera una necessità pressante che non fa pensare ad altro. Diventa priorità.

L’amore d’altro canto è pienezza, sazietà, ristoro. Una condizione ardua da mantenere nel tempo, che ogni tanto si permette di scivolare verso l’innamoramento, ovvero la sua mancanza che però ne fa sentire il desiderio.

Attraverso l’innamoramento conosco l’amore, ma innamorarsi non è amare.

Quanti Ti Amo ho detto senza riflettere?
Era una mia necessità? Era solo una ricerca?

Attestavo forse la mia pienezza?

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Le parti per il tutto: come creo la mia identità attraverso il confronto con gli altri? (3)

Posted on 28 novembre 2016 by Il Rosso Ciliegia
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Il weekend passato è stato davvero noioso: influenzata in panciolle sul divano.
Ho cercato di intrattenermi sperimentando con la Pasta Madre e mi sono guardata qualche programma tv in streeming (perchè da qualche anno non ho la televisione).

Così ieri sera ho seguito “Islam, Italia” di Gad Lerner. Un programma che vorrebbe parlare di integrazione. Gad è libanese e ieri, forse per onorare la Giornata contro la Violenza sulle Donne, parlava del corpo femminile nel mondo mussulmano.

La mia recensione? Sarò breve: mh.
Il programma integrale (e senza pubblicità) lo trovate QUI.

E’ stata intervistata da Gad la presidente dei giovani mussulmani in Italia: Nadia Bouzekri, una sgaissima ragazza di 24 anni, studentessa fuori sede che indossa il velo. Gad insisteva nel voler sapere se la sua religione le impediva di essere una ragazza normale che va in discoteca a ballare con gli amici. Nadia gli ha risposto che lei in discoteca non ci va, non le interessa, non le piace l’ambiente, piuttosto va a cena fuori o fa delle feste in casa con le amiche. Gad le ha risposto che è anacronistica.

Anacronistica: come fai a dire ad una ragazza di 24 anni che è anacronistica solo perchè non va in discoteca il sabato sera?
Se fai vedere le coscie sei una poco di buono, se ti copri sei una sfigata.
Se hai dei flirt sei facile, se non li hai sei “ridicola, anacronistica, arcaica, espressione di una cultura lontana con retaggi del passato che limitano la libertà” come dice Gad ad una ragazza di 24 anni.

Ed io, nel divano da due giorni mi sento ridicola/sfigata/arcaica: perchè non sono uscita ad ubriacarmi e far vedere le mie tette?

E se facesse un programma “Cattolicesimo, Italia” sarebbe in grado con la stessa sfacciataggine di dare delle anacronistiche alle giovani suore col velo o, addirittura, alle suore di clausura.

La mitica Nadia risponde a Gad che forse è facile ideare che ci sia una figura mitologica del padre dittatore piuttosto che ammettere che una ragazza di 17 anni fa una scelta di vita. Lei parla di libertà di espressione di essere mussulmano e italiano. Aggiunge specificando che è un problema di identità. Pluralità di identità. I mussulmani non sono una categoria a sè, ma ci sono mussulmani italiani.

Non c’è lo stampino del giovane mussulmano, dice Nadia.

Detto questo, ecco la teoria (ndr. Fortemente consigliata a chi prepara programmi televisivi che vogliono portare a delle riflessioni sull’identità):

 

Le parti per il tutto: l’individuo per il gruppo.

Come creo la mia identità attraverso il confronto con gli altri?

Il mondo che ci circonda ci vomita milioni di informazioni continuamente, ne siamo schiacciati, ci scivolano via. Come possiamo confrontarci con l’altro, con il gruppo, con la società se non la comprendiamo? L’importanza di comprendere l’ambiente per decifrare noi stessi necessita quindi di un mondo semplificato, in cui le informazioni non sono grezze ma predigerite: organizzare cerebralmente le informazioni significa collocarle in immaginarie scatole ordinate ed in seguito attribuire a queste scatole un’etichetta.
L’etichetta deve essere funzionale ed utile quindi molto semplice, basica, simile ad uno stereotipo: funzionano molto bene quindi le etichette sociali legate al colore della pelle (bianco/nero), al sesso (maschio/femmina), all’età (bambino/anziano) … un congolese e un dominicano sono sempre classificati come “neri”, nonostante possano essere un africano ed un americano perché “nero” è più facile da ricordare che non la nazionalità. Il colore è immediato, l’elenco degli Stati del mondo no. Questo lavoro mentale di organizzazione è necessario per non vivere nell’anarchia totale delle informazioni: è necessario etichettare, non si tratta di semplici pregiudizi ma di sopravvivenza! Dobbiamo cognitivamente dividere per categorie organizzate gli eventi, le informazioni, gli oggetti ed anche le persone. Solo dati organizzati in maniera semplice possono poi essere richiamati alla mente ed utilizzarli. Se ogni informazione fosse per noi totalmente nuova non sapremmo come poterci comportare per rispondere con un comportamento adeguato alla novità. Dobbiamo così trovare una similitudine, una somiglianza anche a grandi linee, che ci permetta di sapere cosa fare, cosa pensare, senza perdere troppo tempo: “la prof. Rossi è un’insegnante -> le darò del Lei”.

L’etichetta è una rappresentazione mentale semplificata a cui è aggiunto un giudizio di valore dato dalle emozioni che suscita. Perché un’etichetta sia importante per la mente deve essere anche emozionante ed in questo senso attivante perché significativa. Questo significa categorizzare ed avviene per ogni informazione, anche per quelle di contesto sociale e di relazione.

Perché le categorie sociali funzionino è necessario che siano chiare nella mente di chi le pensa: ogni scatola deve essere molto omogenea al suo interno e significativamente differente dalle altre scatole perché non ci si possa confondere. Se ci fossero degli errori il sistema crollerebbe e non saremmo in grado di rispondere anche alle più semplici richieste ambientali. Le categorie di persone sono percepite come gruppi stereotipici. Ogni individuo enfatizza quindi le somiglianze intragruppo e le differenze intergruppi. Questo significa che ogni categoria è esagerata per quanto riguarda le similitudini percepite riguardo l’interno: ad esempio “le donne sono tutte uguali”. Le persone compiono questa operazione mentale senza esserne consci, si chiamano bias semplificatori. Un bias è un errore sistematico, è una distorsione, è un giudizio di pensiero sviluppato sulla base di informazioni che la persona aveva precedentemente in possesso perché immagazzinate nella mente, ma non necessariamente vere in questo specifico nuovo caso. Il cervello infatti farà apparire tutti i “neri” come simili tra di loro e molto diversi dai “bianchi”, l’essere africani o americani non fa differenza.

Questo processo di categorizzazione è molto importante perché è contemporaneo alla definizione di sé: ovvero ogni persona contemporaneamente valuta se stessa in quanto appartenente ad una categoria-gruppo piuttosto che ad un’altra. Un individuo può collocarsi contemporaneamente in più gruppi di appartenenza (femmina/maschio; italiano/straniero; educatore/educando…). Ogni persona si categorizza.

Gli individui per valutare le proprie caratteristiche psicologiche (opinioni, competenze sociali, credenze, ecc.) si confrontano con altri individui (confronto sociale), che quindi costituiscono il «modello», ovvero il termine di paragone. Per salvaguardare la stima di sé si scelgono quindi «modelli» simili. La mente è pigra: per questa ragione è più facile paragonarsi a soggetti appartenenti al proprio gruppo con abilità e caratteristiche non troppo diverse dalle proprie. Un altro bias di pensiero vuole che le persone siano naturalmente portate a preservarsi. Per questo cercano di non mettersi troppo in discussione, ma di cogliere gli aspetti positivi di se stessi piuttosto che quelli negativi. Pertanto le categorizzazioni non sono prive di giudizio di valore o prestigio, ma sono confrontate tra di loro. Esistono gruppi giudicati più prestigiosi, oppure con valori più alti, e “fatalità” ne facciamo parte. Siamo sempre dalla parte dei migliori, per una qualche ragione che il nostro cervello ci fa considerare come importante.
Dobbiamo essere tra coloro che hanno un buon valore, altrimenti la nostra stima di noi subirebbe uno smacco troppo elevato che non sapremmo gestire.

Di conseguenza, nel confronto tra i gruppi sociali, si evidenzia la differenza con i gruppi dei quali non facciamo parte al fine di sottolineare la specificità positiva del proprio gruppo, e quindi di sé. Se noi abbiamo forti valori o prestigio allora loro non li devono avere. Noi siamo quelli buoni, impegnati, integri mentre loro sono snob, egocentrici, indecisi. Tutti coloro che non appartengono al nostro gruppo allora sono categorizzati e giudicati come appartenenti a gruppi inferiori. Però, c’è sempre un però, le categorie a cui apparteniamo possono cambiare in base al contesto: lo spiego nel prossimo paragrafo.

Pertanto, riassumendo, il desiderio di comprendere e valutare se stessi avviene attraverso la fase di categorizzazione a cui si aggiunge quella di confronto sociale (giudizio di valore e prestigio dato dal confronto intergruppi).

L’esito crea la nostra identità sociale, che è una parte sostanziale della nostra autostima. L’identità sociale risponde alla domanda “chi sono io?” perché ci permette di soppesarci attraverso il confronto con il gruppo di appartenenza ed anche con i gruppi nei quali non ci sentiamo di appartenere.

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Il tutto nelle parti: gli altri possono aiutarmi a conoscere chi sono? (2)

Posted on 23 novembre 2016 by Il Rosso Ciliegia
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Venerdì al To Human Skills Theory abbiamo raggiunto il sold out. Anzi, lo abbiamo raggiunto più volte perchè avevamo deciso di allargare i numeri degli iscritti per far fronte alle richieste che ci sono pervenute. C’era davvero tanta gente e questo è superlativo! Anzi wonderfulllll, come dice il caro Matteo Refosco, il coordinatore della serata. E’ incredibile come nel vicentino ci siano così tante persone che hanno manifestato la volontà di crescere. Sette i laboratori pensati. Una gioiosa partecipazione. Sono felice per quello che si sta muovendo.

To Human Skills Theory, formazione educatori a Vicenza.

Ecco quindi la seconda parte del testo che ho prodotto per la serata. E’ stato consegnato ai partecipanti in un bel libretto di oltre 100 pagine di contributi inediti dei formatori che con me hanno condotto i laboratori.

Parla dell’importanza di confrontarsi con gli altri, di appartenere a gruppi, di lasciare il tempo a ciascuno di esprimersi e della teoria del mondo giusto, che permea la nostra visione del sistema. Se ci accadono delle cose brutte è perchè ce le siamo meritate. Siamo dei fannulloni, dei peccatori. Abbiamo fatto degli errori e la vita ce li rivomita addosso.

E se fosse solo una teoria?

 

Gli altri possono aiutarmi a conoscere chi sono?

Un metodo per valutare se stessi è quello del confronto.

Come abbiamo detto narrare significa dover fare il punto, ma anche le virgole, gli interrogativi, gli esclamativi. Raccontarsi è un complesso lavoro personale per trovare nessi e causalità nella nostra storia individuale al fine di permettere agli altri di comprenderla. E’ necessario un ascoltatore disposto a porre un orecchio a disposizione di chi narra se stesso. Nella coscienza che l’ambiente influisce sul comportamento un ascoltatore è buono se non anticipa il narratore, ma gli lascia i suoi spazi per riuscire nel difficile lavoro del racconto di sé, perché ciò significa scoprirsi. Esplorarsi. Scendere nel profondo. Unire i pezzi.
Non sempre l’educatore di un gruppo è l’ascoltatore migliore, perché a volte non fa parte della vita quotidiana della comunità che anima. Questa potrebbe essere la sua forza (essere un esterno), ma anche la sua debolezza per cui alcune frasi per lui non hanno senso. Gli manca il nesso. Non riconosce ciò a cui il narratore si riferisce, solo il gruppo di pari può farlo ponendo quindi il giusto accento alle questioni. I coetanei inoltre possono apprendere qualcosa di nuovo da se stessi anche solo per l’osservazione degli spunti del narratore. Per la verità questo processo accade anche all’educatore, il quale in cuor suo conosce sempre più se stesso dal confronto con gli altri. L’attenzione educativa quindi potremmo considerarla molto vasta, un circolo virtuoso.

Potremmo inoltre tecnicamente considerare le relazioni con altre persone come disposte lungo un continuum che passa dall’estremo delle relazioni interpersonali (faccia a faccia) all’estremo opposto dei comportamenti inter-gruppi (che vedremo nel prossimo paragrafo).
Nelle relazioni personali il rapporto è a due, basato sul confronto delle osservazioni delle minime caratteristiche individuali: io sono così, tu sei colà, siamo diversi e ricchi dei nostri pregi e difetti. Vedo che tu sei stato sincero/timido/cattivo e definisco me stesso dal confronto attivo che ho con te dato dalle nostre somiglianze e differenze. Queste caratteristiche sono a maggior ragione evidenti quando una situazione accade ad un gruppo di persone in maniera identica perché in tal modo sono lampanti le differenti modalità di reazione individuale. Se un gruppo si perde nel bosco, ogni ragazzo farà emergere la propria personalità a fronte dello stesso evento e quando ogni ragazzo narrerà la propria esperienza potrà raccontare se stesso con le qualità evidenziate dal confronto personale con ogni altro partecipante. Il gruppo favorisce la definizione di sè perché fornisce più materiale per il confronto interpersonale semplicemente per il fatto che sono compresenti più persone simultaneamente.

Inoltre è qui fondamentale sottolineare come nelle relazioni interpersonali 1 a 1 c’è l’idea di base che vuole le persone artefici del proprio destino: infatti è implicito che tutti hanno la possibilità di percorrere la propria strada verso l’Io Ideale desiderato, facendo scelte per sé suggerite dal confronto personale con altri individui significativi (genitori, animatori, amici). Questa è l’idea del mondo giusto, secondo la quale ognuno ha ciò che si merita perché il mondo è democratico, nel bene ma anche nel male.
Spunti teorici:

Modernizzazione riflessiva (Beck, Giddens, Lash, 1994)
Modernità liquida (Bauman, 2000)
Adultità emergente (Arnett, 2004)
Teoria di Autopercezione (Bem, 1972)
Teoria del mondo giusto (Lerner, 1977)

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Le parti nel tutto: chi sono io? (1)

Posted on 16 novembre 2016 by Il Rosso Ciliegia
2

Ho pensato di condividere con voi lettori di questo blog un lavoro di analisi che sto conducendo per un progetto della Pastorale Giovanile che presenterò, assieme ai miei colleghi formatori, questo venerdì alla serata To Human Skills Theory.

Il titolo del contributo che sto sviluppando è:
Perchè l’individuo ha necessità di appartenere? Il tutto è superiore alla parte.

Ho deciso di condividere pubblicamente lo scritto perchè è necessario. Mi accorgo di questa necessità soprattutto durante il mio lavoro di pratica clinica. Cosa intendo dire? Cercherò di farla fin troppo semplice: i miei pazienti non hanno amici. E lo trovo preoccupante!
Infatti nel momento dell’anamnesi chiedo a tutte le persone che vengono in studio chi sono per loro le risorse relazionali che possiedono al di fuori della coppia… e spesso non ce ne sono. Cerco di sollecitarli nella convinzione che non me le stiano comunicando per timidezza, chiedo i nomi dei testimoni di nozze, dei cugini, dei membri della compagnia di quando si era ragazzini… ma niente. Nessuno di questi è sinceramente legato ai miei pazienti. Le persone in studio non appartengono a gruppi sociali relazionali. Non hanno una rete.
[ndr. Beh, non proprio tutti i pazienti, eh! Qualcuno di loro si stacca proprio ed ha diverse relazioni profonde e sincere stimabilissime!]

Eppure le relazioni amicali, sincere, sociali sono un ottimo preservante per i problemi psicologici. Gli amici sono utili anche alla sanità mentale. Gli amici danno sostegno, forniscono nuovi punti di vita, alleviano. Perchè gli amici ci fanno capire chi siamo e rispondono alla domanda ontologica esistenziale: CHI SONO IO?
Anche se è davvero complesso mantenerli nel tempo perchè la relazione è reciproca e ci si aspetta anche da te che tu possa dare sostegno ed idee. Saper gestire relazioni amicali è complesso: serve intelligenza. Un’intelligenza speciale, complessa: l’intelligenza sociale.

Per questo oggi vi fornisco la prima parte del complesso lavoro teorico che sta dietro all’importanza di lavorare con il gruppo nelle fasi dell’educazione al fine di sviluppare l’intelligenza sociale.
L’articolo che segue è scorrevole e pensato per gli animatori e gli educatori dei gruppi della Diocesi di Vicenza. Penso però che sia un lavoro importante perchè tutti noi dobbiamo imparare in adolescenza a sviluppare quella che è l’intelligenza sociale.
Lo ripubblico quindi per ognuno di noi: si parla del senso dell’esistenza, di perchè non ci sono più i giovani di una volta, cosa significa educare, che cos’è l’autostima…

Sinceramente: leggetelo. E’ interessante. Vi invito caldamente a condividerlo, a commentare, a far nascere un dibattito sul tema.
I vicentini potranno partecipare anche al laboratorio di venerdì, nel quale condurrò un corner di dibattito ed attività esperienziali su questo argomento. Al momento siamo a 63 iscritti: molto bene!

Ecco quindi la prima parte del contributo a cui potrei attribuire questo titolo:
Perchè l’individuo ha necessità di appartenere? Il tutto è superiore alla parte.

 

(1) Le parti nel tutto: il singolo.

Questa è la domanda che più caratterizza gli uomini e le donne del mondo di oggi. Mai era accaduto che tale domanda coinvolgesse in maniera così amplia le persone delle culture precedenti: qualche filosofo, forse, vi aveva dedicato la vita, ma non il ceto medio, le persone comuni.
La ricerca di risposta al “chi sono io?” è così diffusa che la società attuale viene definita dai sociologi contemporanei società autoriflessiva, nel senso che riflette su se stessa domandandosi chi è.
Quali dati sono a disposizione delle persone per poter avviare una ricerca attenta della definizione di sé? Il proprio aspetto ed il proprio comportamento sono sicuramente degli ambiti da analizzare che sono alla portata di tutti e che forniscono molto materiale da osservare. Per cercare di dare una risposta al “chi sono io?” le persone analizzano ciò che fanno per definire ciò che sono. Riflettere, anche a posteriori, sulle proprie azioni permette di comprendere quali scelte di vita abbiamo fatto e quindi ci aiuta a definire il nostro essere. Ad esempio una persona può definire se stessa sincera, perché in un’occasione particolare ha scelto di dire la verità. Oppure si dice timida, perché non ha detto nulla. Oppure è convinta di essere cattiva perché si è comportata in maniera aggressiva.
E’ importante sapersi quindi raccontare per poter fare il punto. Il momento in cui ci si espone si cerca di narrare una storia che ha un senso compiuto: una trama data da cause e conseguenze. Non importa se nella mia mente prima di oggi ero confuso sulla definizione di chi sono, nel momento in cui narro devo dare una consequenzialità che il mio ascoltatore possa comprendere. Gli racconto le mie gesta e mi definisco. In tal modo la narrazione dell’esperienza determina l’essenza.

In questo momento storico la domanda esistenziale “chi sono io?” ha una valenza speciale, ed appunto, una diffusione a macchia d’olio.
Questo succede perché siamo in un tempo di pace e di democrazia nel quale possiamo essere liberamente ciò che vogliamo, le libertà sono incredibilmente ampie come mai prima d’ora: “sii quello che vuoi, ma scegli bene”. Non siamo costretti a fare il lavoro dei nostri padri, non dobbiamo andare in guerra, non temiamo per la nostra sopravvivenza, possiamo viaggiare, possiamo votare, siamo scolarizzati ed informati, siamo connessi a milioni di possibili scelte di vita che vengono presentate quotidianamente dai social e in maniera martellante dalla società dei consumi e degli altriconsumi. Possiamo non meramente cibarci di quello che c’è, ma gustarci piatti scelti che sappiamo di dover scegliere con responsabilità. Possiamo scegliere di essere vegani, equi, bio. L’assenza di confini ci fa sì sentire liberi, ma anche ci fa nascere dei dubbi amletici perché ogni comportamento non è dettato dalla necessità, ma dalla scelta. Pertanto in questa grande pace dell’Occidente i conflitti sono percepiti soprattutto come interni ad ogni singolo individuo. Diventa difficile anche scegliere cosa vogliamo per cena, come possiamo essere certi di chi vogliamo essere da grandi?

Inoltre questo è il tempo della lunga speranza di vita, che chiede agli uomini un’esistenza intensa e fortemente significativa che però deve modificarsi continuamente per rispondere alle differenti esigenze della vita. Il mondo cambia talmente velocemente che potremo definirlo liquido: se vuoi stare fermo devi nuotare, se vuoi avanzare devi nuotare più veloce. Non puoi restare fermo in pace, nella tranquillità, perché rischieresti di annegare. Inoltre la società ci chiede di essere continuamente delle persone speciali, in tutte le fasi della nostra lunga vita.

Dobbiamo quindi porre grande attenzione all’educazione, non solo per i minori ma per tutto l’arco della nostra esistenza. Lo stesso termine “educare” deriva da e-ducere, ovvero “condurre fuori” perché riteniamo che ogni soggetto abbia all’interno una ricchezza che debba solo essere espressa. Educare in questo momento storico è pertanto sia necessario che estremamente impegnativo. E’ necessario perché le persone sono comunque in ricerca di una definizione di sé che diventa il tema attorno al quale gira tutta la vita: è quindi giusto che possano trovare un aiuto da parte dell’e-ducatore. E’ impegnativo perché nemmeno gli educatori hanno risposte ferme alle quali ancorarsi per poter dare una mano a chi è in balia dei flutti del “chi sono io?”. Infatti molti di questi animatori non sono che adulti emergenti, di età compresa tra i 18 ed i 28 anni, che si pongono, come attestano le più moderne ricerche scientifiche, i maggiori dubbi per l’esplorazione identitaria; l’instabilità; l’attenzione autocentrata; la percezione di trovarsi “in mezzo” (non più adolescenti, ma non già adulti) e le numerose possibilità-opportunità di trasformare la propria vita. Infatti il periodo dell’adultità emergente estende a questa fase di vita i processi di esplorazione di sè che erano precedentemente limitati durante l’adolescenza per la mancanza di mezzi. L’adulto emergente ha le domande e gli strumenti per esplorarle, spesso in maniera fin troppo approfondita. E’ imperante esplorare le possibilità nel mare delle offerte. Possiamo così vedere che i tre fondamentali indicatori dell’adultità, ovvero 1) l’accettazione delle responsabilità, 2) la capacità di prendere decisioni in modo indipendente e 3) il divenire economicamente autonomi non vengono raggiunte contemporaneamente, ma, al contrario, sono graduali a causa dell’instabilità intrinseca di questo periodo e della necessità di acquisire un senso stabile di identità attraverso l’esplorazione di differenti opportunità.
La ricerca di sé ritarda quindi l’assunzione delle responsabilità: la domanda “chi sono io?” è quindi impellente nella società attuale, sia per gli educati che per gli educatori, perché da questa risposta potrebbe formarsi un Uomo ed una Donna adulti. E sembra che gli adulti scarseggino, o, almeno, siano sempre più anziani.

L’attenzione educativa è quindi rivolta alla persona singola, educato ed educatore che fanno parte ora dello stesso mondo, invitandola a conoscersi e quindi a soppesarsi. Come può una persona conoscersi al meglio? Stimare ciò che io sono in questo momento non è sufficiente, ma è necessario confrontarlo con il desiderio di ciò che voglio diventare. Non solo quindi chi sono ora, ma qual è il mio progetto di vita, la mia vocazione. L’autostima (intesa propriamente come la “stima di sé”) diventa il fulcro della domanda ontologica “chi sono io?”: essere in grado di valutare la differenza compresa tra ciò che io sono e ciò che voglio essere. L’autostima è un interrogarsi quindi in tre fasi: chi sono io, qual è il mio desiderio e qual è la mia capacità di percorrere il gap tra i due. Ovvero soppesare la mia competenza a raggiungere il desiderato.

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