Ho pensato di condividere con voi lettori di questo blog un lavoro di analisi che sto conducendo per un progetto della Pastorale Giovanile che presenterò, assieme ai miei colleghi formatori, questo venerdì alla serata To Human Skills Theory.
Il titolo del contributo che sto sviluppando è:
Perchè l’individuo ha necessità di appartenere? Il tutto è superiore alla parte.
Ho deciso di condividere pubblicamente lo scritto perchè è necessario. Mi accorgo di questa necessità soprattutto durante il mio lavoro di pratica clinica. Cosa intendo dire? Cercherò di farla fin troppo semplice: i miei pazienti non hanno amici. E lo trovo preoccupante!
Infatti nel momento dell’anamnesi chiedo a tutte le persone che vengono in studio chi sono per loro le risorse relazionali che possiedono al di fuori della coppia… e spesso non ce ne sono. Cerco di sollecitarli nella convinzione che non me le stiano comunicando per timidezza, chiedo i nomi dei testimoni di nozze, dei cugini, dei membri della compagnia di quando si era ragazzini… ma niente. Nessuno di questi è sinceramente legato ai miei pazienti. Le persone in studio non appartengono a gruppi sociali relazionali. Non hanno una rete.
[ndr. Beh, non proprio tutti i pazienti, eh! Qualcuno di loro si stacca proprio ed ha diverse relazioni profonde e sincere stimabilissime!]
Eppure le relazioni amicali, sincere, sociali sono un ottimo preservante per i problemi psicologici. Gli amici sono utili anche alla sanità mentale. Gli amici danno sostegno, forniscono nuovi punti di vita, alleviano. Perchè gli amici ci fanno capire chi siamo e rispondono alla domanda ontologica esistenziale: CHI SONO IO?
Anche se è davvero complesso mantenerli nel tempo perchè la relazione è reciproca e ci si aspetta anche da te che tu possa dare sostegno ed idee. Saper gestire relazioni amicali è complesso: serve intelligenza. Un’intelligenza speciale, complessa: l’intelligenza sociale.
Per questo oggi vi fornisco la prima parte del complesso lavoro teorico che sta dietro all’importanza di lavorare con il gruppo nelle fasi dell’educazione al fine di sviluppare l’intelligenza sociale.
L’articolo che segue è scorrevole e pensato per gli animatori e gli educatori dei gruppi della Diocesi di Vicenza. Penso però che sia un lavoro importante perchè tutti noi dobbiamo imparare in adolescenza a sviluppare quella che è l’intelligenza sociale.
Lo ripubblico quindi per ognuno di noi: si parla del senso dell’esistenza, di perchè non ci sono più i giovani di una volta, cosa significa educare, che cos’è l’autostima…
Sinceramente: leggetelo. E’ interessante. Vi invito caldamente a condividerlo, a commentare, a far nascere un dibattito sul tema.
I vicentini potranno partecipare anche al laboratorio di venerdì, nel quale condurrò un corner di dibattito ed attività esperienziali su questo argomento. Al momento siamo a 63 iscritti: molto bene!
Ecco quindi la prima parte del contributo a cui potrei attribuire questo titolo:
Perchè l’individuo ha necessità di appartenere? Il tutto è superiore alla parte.
(1) Le parti nel tutto: il singolo.
Questa è la domanda che più caratterizza gli uomini e le donne del mondo di oggi. Mai era accaduto che tale domanda coinvolgesse in maniera così amplia le persone delle culture precedenti: qualche filosofo, forse, vi aveva dedicato la vita, ma non il ceto medio, le persone comuni.
La ricerca di risposta al “chi sono io?” è così diffusa che la società attuale viene definita dai sociologi contemporanei società autoriflessiva, nel senso che riflette su se stessa domandandosi chi è.
Quali dati sono a disposizione delle persone per poter avviare una ricerca attenta della definizione di sé? Il proprio aspetto ed il proprio comportamento sono sicuramente degli ambiti da analizzare che sono alla portata di tutti e che forniscono molto materiale da osservare. Per cercare di dare una risposta al “chi sono io?” le persone analizzano ciò che fanno per definire ciò che sono. Riflettere, anche a posteriori, sulle proprie azioni permette di comprendere quali scelte di vita abbiamo fatto e quindi ci aiuta a definire il nostro essere. Ad esempio una persona può definire se stessa sincera, perché in un’occasione particolare ha scelto di dire la verità. Oppure si dice timida, perché non ha detto nulla. Oppure è convinta di essere cattiva perché si è comportata in maniera aggressiva.
E’ importante sapersi quindi raccontare per poter fare il punto. Il momento in cui ci si espone si cerca di narrare una storia che ha un senso compiuto: una trama data da cause e conseguenze. Non importa se nella mia mente prima di oggi ero confuso sulla definizione di chi sono, nel momento in cui narro devo dare una consequenzialità che il mio ascoltatore possa comprendere. Gli racconto le mie gesta e mi definisco. In tal modo la narrazione dell’esperienza determina l’essenza.
In questo momento storico la domanda esistenziale “chi sono io?” ha una valenza speciale, ed appunto, una diffusione a macchia d’olio.
Questo succede perché siamo in un tempo di pace e di democrazia nel quale possiamo essere liberamente ciò che vogliamo, le libertà sono incredibilmente ampie come mai prima d’ora: “sii quello che vuoi, ma scegli bene”. Non siamo costretti a fare il lavoro dei nostri padri, non dobbiamo andare in guerra, non temiamo per la nostra sopravvivenza, possiamo viaggiare, possiamo votare, siamo scolarizzati ed informati, siamo connessi a milioni di possibili scelte di vita che vengono presentate quotidianamente dai social e in maniera martellante dalla società dei consumi e degli altriconsumi. Possiamo non meramente cibarci di quello che c’è, ma gustarci piatti scelti che sappiamo di dover scegliere con responsabilità. Possiamo scegliere di essere vegani, equi, bio. L’assenza di confini ci fa sì sentire liberi, ma anche ci fa nascere dei dubbi amletici perché ogni comportamento non è dettato dalla necessità, ma dalla scelta. Pertanto in questa grande pace dell’Occidente i conflitti sono percepiti soprattutto come interni ad ogni singolo individuo. Diventa difficile anche scegliere cosa vogliamo per cena, come possiamo essere certi di chi vogliamo essere da grandi?
Inoltre questo è il tempo della lunga speranza di vita, che chiede agli uomini un’esistenza intensa e fortemente significativa che però deve modificarsi continuamente per rispondere alle differenti esigenze della vita. Il mondo cambia talmente velocemente che potremo definirlo liquido: se vuoi stare fermo devi nuotare, se vuoi avanzare devi nuotare più veloce. Non puoi restare fermo in pace, nella tranquillità, perché rischieresti di annegare. Inoltre la società ci chiede di essere continuamente delle persone speciali, in tutte le fasi della nostra lunga vita.
Dobbiamo quindi porre grande attenzione all’educazione, non solo per i minori ma per tutto l’arco della nostra esistenza. Lo stesso termine “educare” deriva da e-ducere, ovvero “condurre fuori” perché riteniamo che ogni soggetto abbia all’interno una ricchezza che debba solo essere espressa. Educare in questo momento storico è pertanto sia necessario che estremamente impegnativo. E’ necessario perché le persone sono comunque in ricerca di una definizione di sé che diventa il tema attorno al quale gira tutta la vita: è quindi giusto che possano trovare un aiuto da parte dell’e-ducatore. E’ impegnativo perché nemmeno gli educatori hanno risposte ferme alle quali ancorarsi per poter dare una mano a chi è in balia dei flutti del “chi sono io?”. Infatti molti di questi animatori non sono che adulti emergenti, di età compresa tra i 18 ed i 28 anni, che si pongono, come attestano le più moderne ricerche scientifiche, i maggiori dubbi per l’esplorazione identitaria; l’instabilità; l’attenzione autocentrata; la percezione di trovarsi “in mezzo” (non più adolescenti, ma non già adulti) e le numerose possibilità-opportunità di trasformare la propria vita. Infatti il periodo dell’adultità emergente estende a questa fase di vita i processi di esplorazione di sè che erano precedentemente limitati durante l’adolescenza per la mancanza di mezzi. L’adulto emergente ha le domande e gli strumenti per esplorarle, spesso in maniera fin troppo approfondita. E’ imperante esplorare le possibilità nel mare delle offerte. Possiamo così vedere che i tre fondamentali indicatori dell’adultità, ovvero 1) l’accettazione delle responsabilità, 2) la capacità di prendere decisioni in modo indipendente e 3) il divenire economicamente autonomi non vengono raggiunte contemporaneamente, ma, al contrario, sono graduali a causa dell’instabilità intrinseca di questo periodo e della necessità di acquisire un senso stabile di identità attraverso l’esplorazione di differenti opportunità.
La ricerca di sé ritarda quindi l’assunzione delle responsabilità: la domanda “chi sono io?” è quindi impellente nella società attuale, sia per gli educati che per gli educatori, perché da questa risposta potrebbe formarsi un Uomo ed una Donna adulti. E sembra che gli adulti scarseggino, o, almeno, siano sempre più anziani.
L’attenzione educativa è quindi rivolta alla persona singola, educato ed educatore che fanno parte ora dello stesso mondo, invitandola a conoscersi e quindi a soppesarsi. Come può una persona conoscersi al meglio? Stimare ciò che io sono in questo momento non è sufficiente, ma è necessario confrontarlo con il desiderio di ciò che voglio diventare. Non solo quindi chi sono ora, ma qual è il mio progetto di vita, la mia vocazione. L’autostima (intesa propriamente come la “stima di sé”) diventa il fulcro della domanda ontologica “chi sono io?”: essere in grado di valutare la differenza compresa tra ciò che io sono e ciò che voglio essere. L’autostima è un interrogarsi quindi in tre fasi: chi sono io, qual è il mio desiderio e qual è la mia capacità di percorrere il gap tra i due. Ovvero soppesare la mia competenza a raggiungere il desiderato.